Lady Lazarus, Sylvia Plath

Ripensando ai suoi testi, letti e riletti fino a diventare una presenza che ogni tanto fa capolino nel subconscio, mi viene spontaneo pensare a una storia di vita che sembra aver avuto un momento di sollievo in quella che la poetessa definì come Golden Summer, periodo in cui sente che la nuova luce conferita al suo volto dai capelli dorati è il segnale di un periodo di tregua dell’oscurità che gravita costantemente su di un corpo arreso e vilipendiato da terapie al limite della barbarie. I tentativi di disfarsi delle spoglie terrene vanno a vuoto e nell’essere riportata indietro sente che la sua rinascita è quella di un tragico Lazzaro la cui resurrezione turba invece di suscitare gioia.

Lady Lazarus, Sylvia Plath (1960)

I have done it again.   

One year in every ten   

I manage it——

A sort of walking miracle, my skin   

Bright as a Nazi lampshade,   

My right foot

A paperweight,

My face a featureless, fine   

Jew linen.

Peel off the napkin   

O my enemy.   

Do I terrify?——

The nose, the eye pits, the full set of teeth?   

The sour breath

Will vanish in a day.

Soon, soon the flesh

The grave cave ate will be   

At home on me

And I a smiling woman.   

I am only thirty.

And like the cat I have nine times to die.

This is Number Three.   

What a trash

To annihilate each decade.

What a million filaments.   

The peanut-crunching crowd   

Shoves in to see

Them unwrap me hand and foot——

The big strip tease.   

Gentlemen, ladies

These are my hands   

My knees.

I may be skin and bone,

Nevertheless, I am the same, identical woman.   

The first time it happened I was ten.   

It was an accident.

The second time I meant

To last it out and not come back at all.   

I rocked shut

As a seashell.

They had to call and call

And pick the worms off me like sticky pearls.

Dying

Is an art, like everything else.   

I do it exceptionally well.

I do it so it feels like hell.   

I do it so it feels real.

I guess you could say I’ve a call.

It’s easy enough to do it in a cell.

It’s easy enough to do it and stay put.   

It’s the theatrical

Comeback in broad day

To the same place, the same face, the same brute   

Amused shout:

‘A miracle!’

That knocks me out.   

There is a charge

For the eyeing of my scars, there is a charge   

For the hearing of my heart——

It really goes.

And there is a charge, a very large charge   

For a word or a touch   

Or a bit of blood

Or a piece of my hair or my clothes.   

So, so, Herr Doktor.   

So, Herr Enemy.

I am your opus,

I am your valuable,   

The pure gold baby

That melts to a shriek.   

I turn and burn.

Do not think I underestimate your great concern.

Ash, ash—

You poke and stir.

Flesh, bone, there is nothing there——

A cake of soap,   

A wedding ring,   

A gold filling.

Herr God, Herr Lucifer   

Beware

Beware.

Out of the ash

I rise with my red hair   

And I eat men like air.

LADY LAZARUS

L’ho rifatto.
Un anno ogni dieci
mi riesce —

una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
splendente come un paralume nazista,
il piede destro

un fermacarte,
il viso, anonima e fine
tela ebraica.

Solleva il panno,
o mio nemico.
Incuto terrore? —

Il naso, le occhiaie vuote, tutti i denti?
L’alito puzzolente
svanirà in un giorno.

Presto, presto la carne
che il severo sepolcro ha divorato
tornerà al suo posto su di me,

e sarò una donna sorridente.
Ho trent’anni soltanto.
E come i gatti ho nove volte per morire.

Questa è la Numero Tre.
Quanto ciarpame
da annientare ogni decennio,

che miriade di filamenti.
La folla che sgranocchia noccioline
spintona per vedere

mentre vengo sbendata mani e piedi —
il grande spogliarello.
Signori e signore,

ecco qua le mie mani,
le ginocchia.
Sarò pure pelle e ossa,

ma sono sempre la stessa identica donna.
La prima volta avevo dieci anni.
Fu un incidente.

La seconda volevo
andare fino in fondo senza ritorno.
Cullandomi mi chiusi

come una conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
e staccarmi di dosso i vermi come perle appiccicose.

Morire
è un’arte, come qualunque altra cosa.
Io lo faccio in modo magistrale,

lo faccio che fa un effetto da impazzire
lo faccio che fa un effetto vero.
Potreste dire che ho la vocazione.

È facile farlo in una cella.
È facile farlo e rimanerci.
È il teatrale

ritorno in scena in pieno giorno,
stesso posto, stessa faccia, stesso bestiale
urlo goduto:

«Miracolo!»
è questo che mi stende.
Si paga

per vedere le mie cicatrici, si paga
per ascoltarmi il cuore —
funziona eccome.

E si paga, si paga salato
per sentire una parola, per toccare,
per un goccio di sangue,

una ciocca di capelli, un brandello di veste.
E così, Herr Doktor,
e così, Herr Nemico.

Sono il tuo capolavoro,
il tuo bene prezioso
l’infante d’oro puro

che si scioglie in un grido.
Mi rigiro e brucio.
Non credere che sottovalutati le tue sollecite cure.

Cenere, cenere —
Frughi e rimesti.
Carne, ossa, non ci sono resti —

una saponetta,
una vera nuziale,
una capsula dentaria.

Herr Dio, Herr Lucifero
in guardia
in guardia.

Dalla cenere
sorgo con i miei capelli rossi
e divoro gli uomini come aria.

(Traduzione di Anna Ravano)

Fonti: Oscar Mondadori, Sylvia Plath, la scrittrice che tutti dovrebbero leggere, febbraio 2023

Poetry Foundation

Università di Macerata, Lezione 12B, 5-12-2016, Sylvia Plath

Libriantichi online

Foto di copertina: Foto di Susan Wilkinson su Unsplash


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