Il non-luogo dell’addio

Chi ha assistito alla morte di qualcuno, o ha vissuto la drammatica attesa dell’inevitabile epilogo, coglierà a fondo le drammatiche sequenze descritte da Anna Starobinets (in Italia scritto anche Starobinec) in un libro che si allontana dai generi a cui si dedica normalmente la “Regina dell’horror” russa, ma anche autrice di fantascienza, letteratura infantile, opere teatrali e sceneggiatrice cinematografica.

Si tratta, purtroppo per la coraggiosa autrice, di un’opera autobiografica, scritta con la volontà di segnalare la disumanizzazione dell’ambiente sanitario russo nei confronti della donna in attesa di un bambino affetto da gravissime malformazioni e destinato a non sopravvivere dopo il parto. Si descrive come, non appena la diagnosi viene formulata con un’ecografia, il mondo delle “mami” con le loro camerette del bambino già arredate, i “baby shower” e la strada spianata verso l’ovvia felicità con l’appoggio sociale e il sorriso di compiacimento di medici e infermieri si situa in un versante lontanissimo dal mondo delle “mamme andate a male”, quelle che a dispetto della loro volontà di avere un figlio sono poste di fronte a scelte drammatiche, nella totale assenza di supporto psicologico o almeno di un minimo di solidarietà.

Come l’autrice dichiara anche in un’intervista, nella fretta con cui i dottori fanno rimbalzare la paziente da un ambulatorio all’altro, nello spregio della sua intimità -significativo è l’episodio in cui senza chiedere permesso vengono fatti entrare venti studenti ad assistere a un’ecografia vaginale- è evidente come il corpo della donna sia concepito come materia su cui il medico ha diritto assoluto di parola, per cui sulla paziente si esercitano pressioni di ogni tipo per tentare di conquistarne il governo.

Non è mia volontà addentrarmi in comparazioni tra il sistema russo e quello di qualsiasi altro paese europeo, perché si tratterebbe di un dibattito enorme e “fuori sede”, per non parlare di eventuali considerazioni sull’aborto. Dico solo che nella seconda parte, ovvero quando l’umanizzazione e il sostegno vengono trovati in una clinica di Berlino (Germania), si passa dalla fase di choc -per il risultato della diagnosi, ma anche per l’indifferenza dimostrata nelle cliniche russe- alla fase di sofferenza più acuta. Perché con l’umanizzazione si entra nell’intimità e il “feto” passa a essere definito “bambino” e come tale amato con immensa disperazione.

L’autrice segnala nomi reali di dottori e cliniche, nella consapevolezza delle possibili conseguenze e con la precisa volontà di sporgere denuncia. La descrizione di tutto il percorso psicologico che precede e segue la nascita del bambino non ha bisogno di linguaggi retorici per arrivare a quell’indesiderato non-luogo che abbiamo dentro, cioè allo strazio di quando si comprende che la natura è capace di sfidarci in una lotta in cui abbiamo la certezza di perdere. (n.z.b.)

Il libro di Anna Starobinets è stato tradotto nel 2019 in inglese con il titolo “Look at him” dalla poetessa e traduttrice Katherine E. Young (di cui si possono leggere i commenti e ascoltare un’intervista qui) e in Spagnolo, con il titolo “Tienes que mirar” da Victoria Lefterova ed Enrique Maldonado nel 2021 (ed. Impedimenta). Non ho notizie di edizioni italiane, per ora.

Fonti:

Il sito dell’autrice https://starobinets.ru/eng/

Intervista sul quotidiano spagnolo “El País”, 20 marzo 2021.

Il sito di Katherine E. White https://katherine-young-poet.com

Nessuno può colpire l’ombra

Il diario della prigionia delle idee di Ahmet Altan

Moltissimi anni fa vidi uno spettacolo teatrale di un gruppo di Ravenna, che portava il sottotitolo di nessuno può colpire l’ombra e oggi, leggendo il libro di Ahmet Altan, queste parole non hanno fatto altro che ronzarmi in testa.

Se non si trattasse delle descrizione dell’agonia della libertà, mi limiterei a dire che la lettura dei saggi brevi di Ahmet Altan riuniti in Non rivedrò più il mondo è un’esperienza di lusso che illumina persino il passaggio negli inferi. La degustazione della lettura dei saggi è accompagnata da un certo retrogusto amaro, in cui è impossibile scindere la storia dell’uomo dalla vicenda dello scrittore, nonostante l’autore-protagonista riesca quasi a stemperare la giustificabile indignazione del lettore trascinandolo con un certo vigore verso l’intoccabile universo delle idee.

L’uomo di questa storia vive un’ingiustizia suprema, sotto forma di una condanna già formulata che non ha nulla di kafkiano e che è invece il frutto di una pratica politicamente ben collaudata, condita dalla beffa di galoppini del potere disinformati, noncuranti o placidamente crudeli.

Lo scrittore, che abita nel corpo dell’uomo di questa storia, entra in una bolla, assorbe storie, viaggia tra mondi ed epoche non sue. Sublima i propri affetti e se ne distacca dolorosamente per dribblare in qualche modo l’umiliazione della negazione a qualsiasi diritto di essere amato, oltre che della negazione di mille altre pratiche quotidiane. Tutta la narrazione approda al capitolo finale intitolato Il paradosso dello scrittore che è il sunto lucidissimo di come funziona il mondo-ombra in cui vive e si rigenera, per definizione, la mente di chi nasce scrittore.

Ha un colore la dissidenza? Essendo sempre esistita, di certo si sa che evidentemente ha sempre il colore opposto a quello del potere di turno. Altrettanto certa è l’ottusità del fanatismo, visibile soprattutto quando il potere tenta di dare dignità al sopruso travestendolo da “ideologia”. Il risultato si avvicina più a uno spettacolo da ignobile baraccone in cui si gridano proclami con voce stridula, nulla a che vedere con la ricchezza del mondo-ombra, in cui, secondo le parole di Altan:

Ogni occhio che legge quello che ho scritto, ogni voce che ripete il mio nome, mi prende per mano come una piccola nube e mi porta volando su valli, sorgenti, boschi, mari, sulle città e sulle loro strade. Mi ospita discretamente nelle sua casa, nel suo soggiorno, nelle sue camere.

Non vedrò mai più il mondo è un titolo forte, che mette di fronte al dato di fatto. Il progetto di chi condanna l’autore è proprio l’isolamento perpetuo e definitivo da un mondo che, vien da sospettare, forse non merita neppure di essere visto. (n.z.b.)