Il quadro senza cornice

Come si narra e come è strutturato Seta di Alessandro Baricco

Come già detto nel post precedente, Seta di Alessandro Baricco combina tutti gli elementi del grande romanzo epico, ovvero amore, viaggi, esotismo guerra, inganno, morte. Si è detto anche che i contorni di scene, scenari e personaggi sono volutamente sfumati. Diventa palese, dunque, che l’intenzione non è far addentrare il lettore nella psicologia dei personaggi, ma piuttosto farlo immergere in uno stato d’animo quasi ipnotico, in cui le immagini vaporose e i paesaggi, più onirici che reali, lo trasportano verso un universo nuovo, dove la verosimiglianza radica precisamente nell’imprecisione dei contorni.

Seta procede come una proposta estetica in cui la logica degli eventi narrati e il carattere del protagonista sfumano, acquisendo una forma che costituisce esattamente il punto di forza del romanzo: la sequenza di brevi paesaggi giunge a creare un mondo enigmatico e particolare. Senza questo sovvertimento delle forme tradizionali, avremmo avuto un romanzo ben diverso. L’approccio non esula affatto da una coerenza interna, dal rispetto del codice esclusivo del romanzo e dalla forma con cui si gestiscono le risorse narrative: la voce narrante, i dialoghi dei personaggi, l’articolazione del tempo, la creazione dell’atmosfera.

La rottura della logica convenzionale è visibile anche nell’uso della lingua. Nella prima pagina del romanzo, leggiamo:

Comprava e vendeva.

Bachi da seta.

La logica della frase è stata spezzata (un punto tra verbo e complemento diretto). Questa risorsa viene utilizzata in varie occasioni, ma Baricco aveva bisogno di utilizzarlo nella prima pagina in modo da marcare il codice della sua narrazione. In questo caso, la prima pagina ci presenta più il tono e il codice estetico del romanzo, che il personaggio.

Addentrandoci nella struttura vera e propria della narrazione osserviamo una suddivisione in tre atti, più un “quarto atto” che si aggiunge “a sorpresa” dopo la morte di uno dei personaggi principali. Nello specifico:

Primo atto:

  1. Presentazione del personaggio e fattore scatenante = epidemia dei bachi da seta (conflitto iniziale).
  2. Primo punto di giro = decisione di andare in Giappone.

Secondo atto:

  1. Incontro con Hara Kei e la donna enigmatica (conseguenza del primo punto di giro). COMPARSA DEL CONFLITTO (raggiungere la donna enigmatica).
  2. Viaggi frequenti in Giappone
  3. Secondo punto di giro = il messaggio in inchiostro nero
  4. Viaggio a Nîmes (conseguenza del secondo punto di giro).
  5. Successivi viaggi in Giappone.
  6. Ultimo viaggio in Giappone (con climax proprio -esito= abbandono delle larve e ritorno da Hélène)
  7. Ultimo punto di giro = arrivo di un nuovo messaggio.

Terzo atto:

  1. Climax: lettura della lettera (conseguenza dell’ultimo punto di giro).
  2. Esito = decisione di proseguire con la propria vita. CHIUSURA DEL CONFLITTO (rinuncia alla donna dai tratti non orientali).

In funzione di quarto atto:

  1. Morte di Hélène + scoperta della verità sulla lettera
  2. Chiusura = ultime sensazioni del personaggio.

Come possiamo vedere, il romanzo sviluppa un unico conflitto, quello di Hervé, il suo desiderio sempre frustrato di raggiungere la donna che ha conosciuto in Giappone. Dunque in questo romanzo c’è solo una trama.

Vero è che anche la moglie di Hervé ha un conflitto tutto suo: sa che suo marito ama un’altra donna e vuole mantenerlo al suo fianco. Però tutto questo si rende evidente solo quando scopriamo che è stata lei a scrivere la lettera ricevuta dal protagonista. In tal senso è fondamentale il quarto atto che, come detto, ha la capacità di rimettere in discussione tutta la lettura delle vicende narrate.

Rimandiamo a futuri post l’analisi dei personaggi di Seta!

Foto di Jazmin Quaynor su Unsplash

Testi: Nadia Zamboni Battiston

Fonti: materiale del corso di scrittura di romanzo dell’Ateneu di Barcellona (Spagna)

Tra le nebbie

Gli scenari frammentati e incisivi di “Seta” di Alessandro Baricco

Nei 65 brevi capitoli di Seta di Alessandro Baricco sono contenuti tutti gli ingredienti di un grande romanzo epico: amore, viaggi, esotismo, guerra, inganno, morte. Dovessimo, però, rintracciare una descrizione del protagonista, Hervé, o della bellissima moglie, Helène, non andremmo oltre le poche righe in cui si catturano scarne informazioni, come il fatto che il padre avesse previsto per Hervé un’esistenza monotona, visto il suo carattere poco “virile”, e la descrizione delle sensazioni che i meravigliosi capelli, o la bellissima voce, di Helène suscitano in Hervé e che in una scena fanno scattare un’inedita gelosia. Dunque il narratore onniscente sembra affidare ad altri personaggi del romanzo il compito di tracciare un ritratto dei protagonisti, ma soprattutto è il lettore a doversi attivare come non mai per costruirsi il percorso di una grande passione che resta sempre e comunque “impalpabile”. E siamo d’accordo tutti, credo, sul fatto che i due termini siano antitetici, per cui ecco rivelata la grandezza di questo romanzo.

La storia è narrata attraverso quadri che si mantengono permanentemente “senza cornice”, per cui abbiamo la sensazione di non poter mai giungere ad avere informazioni solide, sentiamo di non aver colto del tutto le situazioni, quasi come se stessimo osservando una scena attraverso lo spioncino della porta di casa. L’imprecisione dei contorni ci porta verso l’ignoto, proprio come Hervé si avventura nel lontanissimo Giappone.

Il lettore si muove come il viaggiatore senza mappe, tra le nebbie di una narrazione che si fonda su poche descrizioni opportunamente ripetute, come vedremo nel post specifico sulla struttura del romanzo, e che si scontra con una visione imperativa e allo stesso tempo totalmente sfuggente di una donna dagli occhi di taglio non orientale, di cui percepiamo la delicatezza della pelle e l’imperiosità del desiderio, ma che non arriveremo mai a vedere nella sua totalità corporea. L’analisi dei singoli personaggi la tratterò in un post a parte, così come la specifica concezione del tempo, dello spazio e degli oggetti che contribuisce a rinforzare l’enigmaticità dell’intera opera.

Trattandosi di un romanzo pubblicato nel 1996, divenuto fenomeno letterario mondiale, con tanto di film di François Girard nel 2007, non credo proprio di commettere uno spoilering facendo una breve descrizione della traiettoria del protagonista. Motore della vicenda, è uno dei pochi aspetti che potremmo classificare come convenzionale nell’opera di Baricco: il conflitto più ancestrale e universale, ovvero la passione amorosa contrastata. Fino a quando Hervé giunge in Giappone e vede per la prima volta la donna misteriosa, potremmo dire che la sua esistenza è priva di scossoni, salvo il conflitto con il padre che ha predisposto per lui una carriera militare non desiderata. Il viaggio in Giappone gli permette di saltare l’ostacolo, di confrontarsi con lingue e usi sconosciuti e, soprattutto, con una figura di potere esotica e temibile, Hara Kei, marito-padrone della donna misteriosa. Mosso dall’intrigante figura, Hervé compie reiterati e massacranti viaggi, fino a quando la storia ha una svolta drammatica -con ingredienti vari e inappellabili come la guerra, l’evidenza della crudeltà di Hara Kei e la totale assenza della donna misteriosa (il marito, comprendendone l’infedeltà, l’ha uccisa forse? Non lo sappiamo, ma quello che importa veramente è che non la vedremo mai più). Hervé abbandona per sempre qualsiasi speranza e torna alla sua vita coniugale con fervore e rassegnazione, ma ecco che Helène, donna meravigliosa che l’ha sempre appoggiato, muore in pochi mesi. Quest’ulteriore giro della storia, sembra condurci irreversibilmente verso la sepoltura di sentimenti e passioni; tuttavia, una coroncina di fiori blu sarà l’oggetto che rimetterà in totale discussione la sequenza degli eventi, essendo il dettaglio che porta alla rivelazione della vera autrice della meravigliosa lettera che la donna misteriosa avrebbe scritto a Hervé: Helène. Di colpo, un personaggio dal ruolo di silenzioso accompagnamento, assume tutt’altra importanza, rivelando un amore incondizionato, delicatezza e capacità strategica di commuovere e far muovere il marito, oltre ad aprire la porta su di una capacità passionale che il personaggio di Helène non aveva fatto sospettare fino al momento. E non solo: con questa scoperta, si rimette in discussione, in verità, anche l’interpretazione della storia che si poteva aver fatto fino a quel momento.

Quando decide di rinunciare per sempre alla donna misteriosa: “Hervé Joncour trascorse gli anni che seguirono scegliendo per sé la vita limpida di un uomo senza più necessità” perché rimette a posto la sua esistenza, aggiustandosi ai cardini della vita coniugale e sociale che ci si aspetta da lui. Ma quando si svela il gesto della moglie, “Ogni tanto, nelle giornate di vento, scendeva fino al lago e passava ore a guardarlo, giacché, disegnato sull’acqua, gli pareva di vedere l’inspiegabile spettacolo, lieve, che era stata la sua vita“; ed è proprio sul “lieve” che val la pena di soffermarsi, in quanto l’intricarsi di sentimenti e passioni mantenute occulte o impossibilitate, infine si è concretizzato in qualcosa che ancora non era quello che avrebbe dovuto essere. In definitiva, la passione c’è stata da parte dei tre personaggi del triangolo amoroso -ammesso che sia possibile definirlo così- ma in nessun caso è sfociata in alterazione dello status quo. Helène e la donna misteriosa sono uscite di scena senza mai aver affabulato, con tutto il loro scrigno di passioni e promesse di felicità, Hervé resta solo e appartato dal mondo, a sua volta con un baule di ricordi e avventure che ora sì, si sente disposto a condividere, concedendo di tanto in tanto narrazioni di qualche sua fantastica avventura a un pubblico meravigliato di bambini. Dopo la risoluzione del conflitto, l’equilibrio viene ritrovato, ma il protagonista non è più lo stesso uomo: ha vissuto una storia.

Rimando ai futuri post su Seta per gli approfondimenti tecnici sul romanzo.

Infine, una considerazione totalmente personale; devo ammettere che la mia prima lettura di Baricco non mi suscitò particolare simpatia. Comprendo che per alcuni questa mia affermazione potrebbe risultare poco meno che una bestemmia letteraria e ammetto che dietro il mio atteggiamento ci fosse quell’istintiva ribellione che mi porta a diffidare verso i “fenomeni” che tutti i tuoi amici ti consigliano caldamente di leggere (o di guardare, visto che siamo in epoche di serie di Netflix, più che di libri). Oggi, rileggendo Seta e studiandone forma, stile e struttura, credo di aver capito che a irritarmi fosse proprio l’uso della voce narrante; avevo l’impressione, infatti, che il narratore ne sapesse molto più di me, ma che mi trattasse con una certa aria di sufficienza, negandomi la comodità della descrizione e non mettendomi in una posizione privilegiata rispetto ai personaggi della storia. A mia discolpa posso solo dire che studiando, o leggendo molto, per fortuna uno supera l’infantilismo del lettore debuttante! (n.z.b.)

Foto di Jazmin Quaynor su Unsplash

Testi: Nadia Zamboni Battiston

Fonti: materiale del corso di scrittura di romanzo dell’Ateneu di Barcellona (Spagna)

L’inventore di sogni

L’universo felice di Peter Fortune

Ricordo una lezione di italiano, a Buenos Aires, in cui utilizzai un brano dell’Inventore di sogni di Ian McEwan. Il passaggio scelto era talmente esilarante che la lezione prese una piega differente (comunque proficua). Brano utilizzato a parte, la vita di Peter Fortune a ogni minimo input decolla verso avventure straordinarie e spinte al limite, che sono un’elaborazione spesso struggente di vicende ordinarie o dolorose della vita di un bambino. Leggendo tutte le incredibili vicende di Peter è come se il lettore riuscisse a riacquistare la fertilità di immagini e suggestioni a cui la mente infantile sa ricorrere per riempire lacune e imparare. Peter è particolarmente tenace nella sua permanenza nel mondo immaginario e si distingue dagli altri bambini proprio perché ci impiega molto più tempo di chiunque altro a vincere la diffidenza verso gli adulti e alla loro realtà disciplinata e troppo ovvia.

Riporto volentieri il brano:

Un Natale il padre di Peter, Thomas Fortune, stava sistemando le decorazioni del soggiorno. Detestava fare quel lavoro. Diventava sempre di cattivo umore. Quella volta doveva attaccare dei nastri in alto in un angolo. Beh, proprio in quell’angolo c’era una poltrona e su quella poltrona a fare niente di speciale, c’era Peter.

-Non ti muovere- disse Mr Fortune. – Adesso salgo sulla poltrona per arrivare al muro.      -Va bene, – disse Peter, – Fa’ pure.

Ed ecco Mr Thomas Fortune salire sopra la poltrona, e Peter salire in groppa ai suoi pensieri. A vederlo si sarebbe detto che non faceva nulla, ma in realtà era occupatissimo. Si stava inventando un modo emozionante di scendere dalle montagne con un attaccapanni e una corda ben tesa tra i due pini. Continuò a pensarci mentre suo padre stava ritto sullo schienale della poltrona, ansimando e stirandosi per arrivare al soffitto. Come si poteva fare, pensava intanto Peter, per scivolare senza andare a sbattere negli alberi che tenevano la corda?

Chissà, forse l’aria di montagna stuzzicò l’appetito di Peter. Fatto sta che in cucina c’era un pacchetto nuovo di biscotti al cioccolato. Non era bello continuare a ignorarli. Peter non fece in tempo ad alzarsi che sentì alle sue spalle un orrendo frastuono. E si voltò proprio mentre suo padre cadeva a testa prima nel buco tra la poltrona e il muro. Poi Mr Fortune riapparve, per prima la testa di nuovo. Sembrava deciso a fare Peter a pezzettini. Dall’altra parte della stanza, la mamma si teneva stretta la mano sulla bocca per non farsi sorprendere a ridere.

-Oh scusa papà, – disse Peter. – Mi ero dimenticato che eri lì.

Fantastico libro che riapre le porte di quando tutti eravamo un po’ inventori di sogni.

Testi: Nadia Zamboni Battiston

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Ian McEwan, L’inventore di sogni, ed. Einaudi, 1994, traduzione Susanna Basso

Foto di copertinaJude Beck on Unsplash

Luce d’agosto

Light in August, William Faulkner, 1932

Nella vicenda si intrecciano i percorsi di Joe Christmas, tormentato outsider, e Lena Grove, giovane incinta che parte a piedi dall’Alabama per raggiungere il padre del nascituro. Joe fugge dal delitto commesso e dalla convinzione che nelle sue vene scorra sangue “nero”. Quest’ultima è un’auto-condanna che non gli lascia scampo e che non gli permetterà di trovare pace neppure quando viene accolto da Joanna Burden, benefattrice che si dedica a soccorrere precisamente le persone di colore. Joe, tuttavia, è il primo a non perdonare a sé stesso la possibilità di essere un sangue misto, per cui arriva a mordere proprio la mano tesa ad aiutarlo -ovvero commette un secondo omicidio, quello di Joanna Burden.

Con Lena Grove abbiamo, come in “The Sound and the Fury” la figura della donna giovane e incinta. L’enormità del suo viaggio eguaglia l’enormità della sua pretesa: che il giovane che l’ha messa incinta e partito senza lasciare recapiti, si faccia carico di lei e della sua creatura. Non c’è persona tra quelle che la viandante incontra che non formuli pensieri o commenti ironici sulla sua situazione, ma Lena prosegue testarda e serena, mossa dalla fede che Lucas Burch la stia aspettando a Jefferson City.

Il titolo del romanzo allude a quella che l’autore definisce la “luce della sua terra”, “fulgida e nitida, come se venisse dall’età classica” ma agosto è il mese in cui Lena partorirà, per cui “light” è anche quando si sgraverà del peso che si porta dall’Alabama al Missouri. Nell’incipit il caldo, la polvere, la solitudine, la durezza dei personaggi incalliti dal lavoro e tanta povertà sono sintetizzate nella partenza di nascosto di Lena e da un paio di scarpe maschili ereditate:

Ma scelse di andarsene di notte, e dalla finestra. Si portò dietro un ventaglio di foglia di palma e un fagotto legato per bene in un fazzolettone. Conteneva fra le altre cose trentacinque centesimi in monete da cinque e da dieci. Le scarpe gliele aveva passate il fratello. Erano appena usate perché d’estate nessuno dei due metteva mai le scarpe. Quando sentì sotto i piedi la polvere della strada, se le tolse e le portò in mano.

In poche pennellate Faulkner introduce l’avventura di Lena, ne rivela il carattere curiosamente meticoloso -la disposizione delle monete- e allo stesso tempo l’ingenuità -l’intenzione di raggiungere addirittura un altro stato a piedi- con una punta di previdenza -si toglie le scarpe perché la polvere della strada non le rovini.

Il progresso del viaggio o della fuga dei personaggi è il sintomo della volontà di passaggio dalla non definizione -bianco o nero, per Joe Christmas, donna rispettabile o poco di buono per Lena Grove- ovvero dalla trasparenza dell’outsider o di chi fa una scelta che devia dal previsto, all’assunzione di un ruolo, che in una società implacabilmente moralista e indurita dalla miseria materiale appare ardua, se non impossibile. (n.z.b.)

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Foto di copertina: Dorothea Lange, An American Exodus, 1939

L’amante senza fissa dimora

Fruttero & Lucentini, Oscar Mondadori 1986.

Maestri del giallo, ma soprattutto insuperati maestri di uno stile linguistico svelto, accattivante, incisivo, dove in una frase di cinque parole può nascondersi un’intera analisi sociologica. La premessa di questo romanzo sarebbe già un valido argomento di studio, ovvero l’incontro tra una nobildonna romana e un enigmatico e sfuggente accompagnatore di una comitiva di turisti e quindi una storia d’amore campata su tanta materia illusoria e poche certezze. La suspense prende qui i colori di Venezia, nelle sue ombre oppure nel falso sorriso della vetrina diurna saccheggiata dal turismo di massa. Certamente ci troviamo nell’ambito della suspense funzionale al giallo, ma in fondo, le grandi storie d’amore, celebrate in letteratura o vissute personalmente, non sono forse rimaste indimenticabili proprio per il mistero di cui si sono abbondantemente nutrite?

Ecco un brano in cui possiamo vedere come in poche righe gli autori alludano rispettivamente a turismo selvaggio, alla bellezza indomita della città che il protagonista ricorda con struggimento e alla routine commerciale che ne solca “prosaicamente” le acque:

Look, look Mr. Silvera, a real gondola!

Ah, – dice Mr. Silvera, – yes, indeed.

Conosce altri nomi di imbarcazioni locali (dondolino, carlina, mascareta… ) ma non li rivela. Perché sarebbe fiato sprecato, si dice, perché certe cose non interessano più nessuno e tanto meno i suoi 28.

Ma la verità è che quella sua latente Venezia di broccati, ori, porpore, cristalli, non si può nemmeno sfiorare senza pena, e soprattutto non c’entra niente con la Venezia schematica, impersonale, dell’Imperial.

S.Angelo, S.Tomà, Ca’ Rezzonico, Accademia. Il vaporetto passa dall’una all’altra sponda del Canal Grande, accosta, sbarca trenta danesi, imbarca trenta bambini che tornano da scuola, riparte verso il prossimo pontile con uno strappo prosaico, laborioso, da mulo d’acqua.

 

Alla prossima! Nadia.