Il quadro senza cornice

Come si narra e come è strutturato Seta di Alessandro Baricco

Come già detto nel post precedente, Seta di Alessandro Baricco combina tutti gli elementi del grande romanzo epico, ovvero amore, viaggi, esotismo guerra, inganno, morte. Si è detto anche che i contorni di scene, scenari e personaggi sono volutamente sfumati. Diventa palese, dunque, che l’intenzione non è far addentrare il lettore nella psicologia dei personaggi, ma piuttosto farlo immergere in uno stato d’animo quasi ipnotico, in cui le immagini vaporose e i paesaggi, più onirici che reali, lo trasportano verso un universo nuovo, dove la verosimiglianza radica precisamente nell’imprecisione dei contorni.

Seta procede come una proposta estetica in cui la logica degli eventi narrati e il carattere del protagonista sfumano, acquisendo una forma che costituisce esattamente il punto di forza del romanzo: la sequenza di brevi paesaggi giunge a creare un mondo enigmatico e particolare. Senza questo sovvertimento delle forme tradizionali, avremmo avuto un romanzo ben diverso. L’approccio non esula affatto da una coerenza interna, dal rispetto del codice esclusivo del romanzo e dalla forma con cui si gestiscono le risorse narrative: la voce narrante, i dialoghi dei personaggi, l’articolazione del tempo, la creazione dell’atmosfera.

La rottura della logica convenzionale è visibile anche nell’uso della lingua. Nella prima pagina del romanzo, leggiamo:

Comprava e vendeva.

Bachi da seta.

La logica della frase è stata spezzata (un punto tra verbo e complemento diretto). Questa risorsa viene utilizzata in varie occasioni, ma Baricco aveva bisogno di utilizzarlo nella prima pagina in modo da marcare il codice della sua narrazione. In questo caso, la prima pagina ci presenta più il tono e il codice estetico del romanzo, che il personaggio.

Addentrandoci nella struttura vera e propria della narrazione osserviamo una suddivisione in tre atti, più un “quarto atto” che si aggiunge “a sorpresa” dopo la morte di uno dei personaggi principali. Nello specifico:

Primo atto:

  1. Presentazione del personaggio e fattore scatenante = epidemia dei bachi da seta (conflitto iniziale).
  2. Primo punto di giro = decisione di andare in Giappone.

Secondo atto:

  1. Incontro con Hara Kei e la donna enigmatica (conseguenza del primo punto di giro). COMPARSA DEL CONFLITTO (raggiungere la donna enigmatica).
  2. Viaggi frequenti in Giappone
  3. Secondo punto di giro = il messaggio in inchiostro nero
  4. Viaggio a Nîmes (conseguenza del secondo punto di giro).
  5. Successivi viaggi in Giappone.
  6. Ultimo viaggio in Giappone (con climax proprio -esito= abbandono delle larve e ritorno da Hélène)
  7. Ultimo punto di giro = arrivo di un nuovo messaggio.

Terzo atto:

  1. Climax: lettura della lettera (conseguenza dell’ultimo punto di giro).
  2. Esito = decisione di proseguire con la propria vita. CHIUSURA DEL CONFLITTO (rinuncia alla donna dai tratti non orientali).

In funzione di quarto atto:

  1. Morte di Hélène + scoperta della verità sulla lettera
  2. Chiusura = ultime sensazioni del personaggio.

Come possiamo vedere, il romanzo sviluppa un unico conflitto, quello di Hervé, il suo desiderio sempre frustrato di raggiungere la donna che ha conosciuto in Giappone. Dunque in questo romanzo c’è solo una trama.

Vero è che anche la moglie di Hervé ha un conflitto tutto suo: sa che suo marito ama un’altra donna e vuole mantenerlo al suo fianco. Però tutto questo si rende evidente solo quando scopriamo che è stata lei a scrivere la lettera ricevuta dal protagonista. In tal senso è fondamentale il quarto atto che, come detto, ha la capacità di rimettere in discussione tutta la lettura delle vicende narrate.

Rimandiamo a futuri post l’analisi dei personaggi di Seta!

Foto di Jazmin Quaynor su Unsplash

Testi: Nadia Zamboni Battiston

Fonti: materiale del corso di scrittura di romanzo dell’Ateneu di Barcellona (Spagna)

Nessuno può colpire l’ombra

Il diario della prigionia delle idee di Ahmet Altan

Moltissimi anni fa vidi uno spettacolo teatrale di un gruppo di Ravenna, che portava il sottotitolo di nessuno può colpire l’ombra e oggi, leggendo il libro di Ahmet Altan, queste parole non hanno fatto altro che ronzarmi in testa.

Se non si trattasse delle descrizione dell’agonia della libertà, mi limiterei a dire che la lettura dei saggi brevi di Ahmet Altan riuniti in Non rivedrò più il mondo è un’esperienza di lusso che illumina persino il passaggio negli inferi. La degustazione della lettura dei saggi è accompagnata da un certo retrogusto amaro, in cui è impossibile scindere la storia dell’uomo dalla vicenda dello scrittore, nonostante l’autore-protagonista riesca quasi a stemperare la giustificabile indignazione del lettore trascinandolo con un certo vigore verso l’intoccabile universo delle idee.

L’uomo di questa storia vive un’ingiustizia suprema, sotto forma di una condanna già formulata che non ha nulla di kafkiano e che è invece il frutto di una pratica politicamente ben collaudata, condita dalla beffa di galoppini del potere disinformati, noncuranti o placidamente crudeli.

Lo scrittore, che abita nel corpo dell’uomo di questa storia, entra in una bolla, assorbe storie, viaggia tra mondi ed epoche non sue. Sublima i propri affetti e se ne distacca dolorosamente per dribblare in qualche modo l’umiliazione della negazione a qualsiasi diritto di essere amato, oltre che della negazione di mille altre pratiche quotidiane. Tutta la narrazione approda al capitolo finale intitolato Il paradosso dello scrittore che è il sunto lucidissimo di come funziona il mondo-ombra in cui vive e si rigenera, per definizione, la mente di chi nasce scrittore.

Ha un colore la dissidenza? Essendo sempre esistita, di certo si sa che evidentemente ha sempre il colore opposto a quello del potere di turno. Altrettanto certa è l’ottusità del fanatismo, visibile soprattutto quando il potere tenta di dare dignità al sopruso travestendolo da “ideologia”. Il risultato si avvicina più a uno spettacolo da ignobile baraccone in cui si gridano proclami con voce stridula, nulla a che vedere con la ricchezza del mondo-ombra, in cui, secondo le parole di Altan:

Ogni occhio che legge quello che ho scritto, ogni voce che ripete il mio nome, mi prende per mano come una piccola nube e mi porta volando su valli, sorgenti, boschi, mari, sulle città e sulle loro strade. Mi ospita discretamente nelle sua casa, nel suo soggiorno, nelle sue camere.

Non vedrò mai più il mondo è un titolo forte, che mette di fronte al dato di fatto. Il progetto di chi condanna l’autore è proprio l’isolamento perpetuo e definitivo da un mondo che, vien da sospettare, forse non merita neppure di essere visto. (n.z.b.)

Il narratore trasparente

Paul Auster e la sovversione narrativa in Città di Vetro

La trama di Città di Vetro (1994) è in qualche modo riepilogata nelle parole dello scrittore protagonista del romanzo: “Gli parlò delle chiamate telefoniche in cui qualcuno chiedeva di Paul Auster, della sua inspiegabile accettazione del caso, del suo colloquio con Peter Stillman, della sua conversazione con Virginia Stillman, della sua lettura del libro di Stillman, di come seguì Stillman dalla stazione Grand Central, dei vagabondaggi quotidiani di Stillman, della borsa e dei rottami, delle inquietanti cartine che formavano lettere dell’alfabeto, delle sue conversazioni con Stillman, della sparizione di Stillman dall’hotel“.

Tale descrizione potrebbe indurci a credere che il narratore non si sia addentrato troppo nella trama per evitare lo spoiling, come si direbbe oggi, trasmettendoci l’idea che il finale sia stato omesso. La realtà è infinitamente più complessa, vale a dire che: tecnicamente i passaggi della storia sono in effetti tutti riassunti in questo paragrafo per cui forzosamente l’interesse sarà suscitato non dal “cosa” si racconta, ma dal “come”. In effetti le risposte a tutti gli interrogativi che la trama ci ispira, nello specifico: Chi sono i personaggi citati?, Perché si parla di Paul Auster come di un personaggio quando sappiamo che è l’autore del libro che stiamo tenendo in mano? Comprendiamo che i personaggi Stillman sono imparentati tra loro, ma qualcuno ci dirà dov’è andato Stillman o succederà qualcos’altro dopo la sua sparizione? non giungeranno attraverso i canonici passaggi di premessa-conflitto-risoluzione del conflitto, insomma del tipico schema rassicurante che fuga ogni dubbio. Anzi, l’importanza stessa di questi interrogativi ad un certo punto sfumerà fino a perdersi. Eppure, va assolutamente escluso che il lettore venga trascinato in una storia senza capo né coda, ermetica al punto da respingerlo.

Quali sono i binari su cui si muove la narrazione in Città di Vetro? Già in partenza va stabilito che la storia narrata non è attribuibile a nessuno degli argomenti universali noti e convenzionali per la scrittura di una trama -in estrema sintesi: un conflitto da risolvere con annessi, connessi, trame secondarie, finale drammatico o felice a seconda del caso; tale assenza va di pari passo con lo smantellamento sistematico di tutti i punti di riferimento tipici di una storia. Tecnicamente, segnaliamo quindi:

-la “de-automatizzazione” dell’interpretazione del testo; in seguito allo smarrimento provocato dall’assenza di referenti tipici, il lettore comprende di dover applicare una dose supplementare di attenzione per accedere a un eventuale “sottotesto”, o “alla storia tra le righe”, o semplicemente a un’interpretazione dei fatti sottintesa ma non rivelata. Se, entro certi limiti, un certo impegno da parte del lettore fa parte del contratto scrittore-lettore, in questo caso particolare le informazioni che vengono dischiuse e lasciate intuire non fanno che travolgere sistematicamente gli schemi di interpretazione di chi legge.

– sappiamo che una delle prescrizioni tipiche rivolte al novello scrittore è l’esigenza di verosimiglianza; in Città di Vetro, con i suoi personaggi che si sdoppiano e le identità mutevoli, con l’attorcigliarsi della storia attorno a più autori di nome e di fatto, al lettore non resta che coltivare la speranza che il fatidico quaderno rosso di Daniel Quinn -che arriva a trasformarsi in delirante diario di cui non ci viene offerto neppure uno scorcio- un giorno o l’altro verrà aperto da qualcuno che sarà in grado di dare una spiegazione a tutte le lacune che svincolano la storia dalla tangibilità. Ciò non avviene, ci viene solo detto che il narratore lo custodirà, ma non lo apre, e il Paul Auster che fa parte della fiction si rifiuta categoricamente di leggerlo, né lascia intendere che un giorno lo farà, per cui l’inverosimiglianza non viene intaccata da spiegazioni che tentino di rimettere a posto retrospettivamente gli elementi esposti.

-la logica sequenza temporale dei fatti (tutt’al più con qualche flash-back), data per scontata nella scuola di scrittura creativa, viene egualmente e bellamente ignorata; al contrario, tutti i riferimenti a date, durata dell’azione, momenti, ecc. restano regolarmente vaghi. È tipico allora che l’autore ci dica esplicitamente di non essere in grado di definire “quanto tempo passerà”, oppure che momenti del passato si intersechino con il presente, o forse il futuro, facendo intuire al lettore un percorso che ben presto si rivelerà tortuoso, costellato di allusioni oniriche, o comunque di sfoghi degni di una mente turbata che non è in grado di ricostruire con esattezza un ricordo.

-il ricorso al caso come propulsore dell’azione oppure “deus ex-machina“, risorsa che il maestro della scuola di scrittura sconsiglia perché nelle mani di uno scrittore inesperto tradisce l’incapacità di far evolvere la storia (lasciando allo scoperto una trama e uno storyboard poco meditati) qui è addirittura il fattore che determina l’inizio della vicenda, sotto forma di una telefonata destinata ad altra persona.

A determinare l’intuizione dei personaggi da parte del lettore è dunque tutta una serie di incidenti ed eventi casuali che via via costruiscono o scompongono le varie identità. In risposta al legittimo dubbio che alcuni dei personaggi siano semplicemente il frutto della fantasia di Quinn-Auster, come detto, si lascia intendere che nel fatidico quaderno rosso di Quinn saranno elencati per filo e per segno i fatti. Vale a dire che “la realtà” con la sua logica sequenza temporale e l’ovvio dipanarsi di causa ed effetto, effettivamente esiste da qualche parte, ma narrarla tale e quale non è lo scopo della scrittura di nessuno dei Paul Auster, Daniel Quinn o William Wilson che popolano la Città di Vetro.

Si profilano dunque delle architetture geniali e interessanti; nel dubbio generalizzato sull’identità di chi stia raccontando la storia e di chi siano, o cosa rappresentino, i personaggi, siamo portati spontaneamente a ipotizzare che una mente in preda a un disturbo post-traumatico abbia dato vita a tutto un mondo immaginario in cui sono reinterpretate le persone coinvolte nell’incidente irreversibile. Ecco allora che la famiglia dello scrittore Paul Auster ripete il modello di famiglia che Quinn non ha più (un figlio maschio della stessa età), ecco che Stillman padre rinchiude il figlio Peter (omonimo del figlio di Quinn) per studiare le reazioni di un essere umano mantenuto in isolamento fin dalla nascita, argomento che, guarda caso, Quinn stava studiando nell’epoca della morte del figlioletto.

A questo punto ci saremo già resi conto che in questa mente libera di spaziare tra corpi e momenti si “sintetizza” l’essenza della missione dello scrittore Paul Auster in carne ed ossa, il quale non ha alcun interesse ad enumerare fatti in modo da veicolare un messaggio che presumibilmente ci farà imparare qualcosa che non sapevamo. Il fatto di richiudere la nostra copia di Città di Vetro senza avere in mano delle certezze non esclude la sensazione di aver compiuto un lungo viaggio nel cuore pulsante della città di New York che nelle riflessioni di Quinn è: “uno spazio inesauribile, un labirinto di passi interminabili e per quanto lontano arrivasse, per quanto bene ne conoscesse i quartieri e le strade, lui restava sempre con la sensazione di essersi smarrito“.

New York “è” la città di vetro ed è il fattore unitario in cui è racchiusa la molteplicità per eccellenza, visto il melting pot e la mutevolezza delle condizioni di clima e di luce, lo skyline punteggiato da nubi cangianti. Nella narrazione luce naturale e artificiale si fondono per scandire un non-tempo in cui Quinn scrive sul suo quaderno rosso. La luce dunque si presenta alternativamente in periodi prolungati, in cui la scrittura si dilunga, e brevi istanti che gli permettono di scrivere appena una o due frasi. È la luce del giorno? È l’intermittenza dell’insegna luminosa di un ristorante? Non è dato di saperlo; forse l’unico episodio in cui luce diurna e notturna naturali determinano il comportamento di Quinn sono i giorni passati quasi allo stato brado, vissuti in strada, tra i rifiuti della metropoli.

Il ricorso a definizioni vaghe del luogo alternate a dettagli di massima precisione è sufficiente per il lettore moderno che ben difficilmente è a digiuno di immagini e suggestioni tipiche dell’ambientazione newyorkese; a potenziare il quadro, le liste di elementi accumulati a caso contribuiscono a imprimere ritmo alla prosa e a definire la singolarità degli scenari, rivelando una certa predilezione per quelli che sono gli “scarti”, ovvero ciò che è stato utilizzato, non serve più, ma che persiste nonostante tutto. Un po’ come Quinn, uomo colpito dal lutto più grave, dalla sconfitta esistenziale, dalla perdita di casa e identità ma che esiste e che continuerà ad esserci attraverso l’indomito quaderno rosso, ovvero attraverso la sua scrittura.

Testi e traduzioni da spagnolo e inglese: Nadia Zamboni Battiston

Fonti: lezioni del Corso di Scrittura dell’Ateneu Barcelonès, Ciudad de Cristal, Paul Auster, edizioni ANAGRAMA, Barcelona, Postmoderno e Letteratura, P. Carravetta e P. Spedicato, Bompiani, 1984,

 

 

 

Le parole del mare

Estratti dal libro “Il Vecchio e il Mare” comparati tra le versioni italiana, inglese e spagnola

Concludo questa breve monografia su Hemingway con qualche accenno alla lingua utilizzata nel romanzo breve “Il Vecchio e il Mare” (1953) e con un paio di confronti tra versione originale, italiana e spagnola. Nei post precedenti è già stata menzionata la semplicità dello stile narrativo e quindi prenderemo come esempio un brevissimo e significativo estratto. La dinamicità di questa scelta stilistica è arricchita tuttavia da estrema precisione lessicale di cui abbiamo un brillante esempio con la minuziosità e proprietà di termini che fanno riferimento al mondo della pesca.

Riepilogando, le risorse a cui ricorre l’autore per comunicare le informazioni riguardanti i personaggi e la vicenda sono:

  1. descrizione fisica del personaggio
  2. azioni
  3. dialoghi
  4. pensieri
  5. spazi

Tutti questi elementi sono presentati in forma dettagliata, per cui il lettore viene immerso totalmente nella storia. Seguiamo i passi del personaggio e per di più ci addentriamo in un universo perfettamente definito. Tornando alla precisione lessicale per quel che riguarda il mondo della pesca, si nota come il termine assolutamente calzante scivoli con la massima naturalezza nella descrizione del ritorno in porto del pescatore con il suo giovane amico:

Raccolsero l’attrezzatura della barca. Il vecchio si mise l’albero in spalla e il ragazzo portò la tinozza di legno con le brune lenze ben ritorte addugliate, la gaffa e la fiocina con la sua asta. La tinozza con le esche era a poppa con la mazza che serviva a domare i pesci grossi quando venivano rimorchiati.

Per chi è estraneo alla pesca, ci sono almeno tre termini ostici (addugliata, gaffa, brune lenze) e un termine “confondibile” (ritorte). Procedo subito a una breve spiegazione in modo da poter passare alla comparazione tra originale e traduzioni in italiano e spagnolo.

Addugliate deriva da dùglia s. f. [adattam. di voce genov. che continua il lat. dupla «doppia»]. – Nell’attrezzatura navale, ciascuna delle spire nelle quali si dispone un cavo, quando è arrotolato su un ponte scoperto, pronto per essere rapidamente filato (vocabolario Treccani). Per cui significa addugliate significa “avvolte nella spira ecc.”

Gaffa s. f. [dal fr. gaffe, provenz. gaf, forse di origine germ.]. – Asta di legno, munita sulla cima di un ferro a uncino, che fa parte dell’attrezzatura delle imbarcazioni e si usa nell’accostarsi a un’altra imbarcazione o alla banchina, per afferrarsi a qualche sporgenza o anello, ecc.; è detta anche gancio d’accosto, mezzomarinaro o mezzo marinaio e, disus., alighiero. (vocabolario Treccani)

Brune lenze; bene o male tutti sanno cos’è una lenza, a conferma la descrizione del vocabolario Treccani: “Filo di spessore e lunghezza variabile, costituito nel passato di crini di cavallo o di seta o di metallo o di fili di canapa ritorti, e oggi quasi esclusivam. di nailon, a un’estremità del quale si legano uno o più ami per pescare” ma incuriosisce l’aggettivo “brune” che mi spinge a confrontare questa traduzione con l’originale. In inglese “hard-braided brown lines” dove brown effettivamente corrisponde a “brune” che potrebbe anche essere “brunite” (da sole, salsedine, ecc.). In versione spagnola le brune lenze sono “sedal pardo“, dove pardo significa di colore marron-rossiccio.

Ritorte potrebbe confonderci e farci pensare a un “piegate” o magari contorte, accezioni che non ha in questo contesto, dove invece si riferisce alla lavorazione per la produzione del filo: “Nell’industria tessile, prodotto ottenuto con la ritorcitura di più filati sia dello stesso titolo e qualità, sia di titolo e qualità diversi” (vocabolario Treccani). L’inglese specificamente dice “hard-braided”, letteralmente “intrecciate forte”; lo spagnolo “malla prieta” letteralmente “rete fissa” (ajustada o ceñida, sinonimi). Ma in quest’ultimo caso è interessante segnalare che “prieto” significa anche “molto scuro che quasi non si distingue dal nero”, insomma, potrebbe addirittura essere un’iterazione dell’idea di “pardo” (cfr. il vocabolario della Real Academia, rae.es).

Cito interamente i due paragrafi in inglese e in spagnolo, da cui costruirò progressivamente un glossario (in costruzione!).

Testo originale:

They picked up the gear from the boat. The old man carried the mast on his shoulder and the boy carried the wooden boat with the coiled, hard-braided brown lines, the gaff and the harpoon with its shaft. The box with the baits was under the stern of the skiff along with the club that was used to subdue the big fish when they were brought alongside.

In spagnolo:

Recogieron el aparejo del bote. El viejo se echó el mástil al hombro y el muchacho cargo la caja de madera de los enrollados sedales pardos de apretada malla, el bichero y el arpón con su mango. La caja de las camadas estaba bajo la popa, junto a la porra que usaba para rematar a los peces grandes cuando los arrimaba al bote.

In italiano:

Raccolsero l’attrezzatura della barca. Il vecchio si mise l’albero in spalla e il ragazzo portò la tinozza di legno con le brune lenze ben ritorte addugliate, la gaffa e la fiocina con la sua asta. La tinozza con le esche era a poppa con la mazza che serviva a domare i pesci grossi quando venivano rimorchiati.

In tutte e tre le lingue il passaggio risulta impegnativo per il lettore ma allo stesso tempo suscita il rispetto verso il mondo su cui l’autore ha aperto la finestra: comprendiamo che si tratta di un mondo complesso, con linguaggi e tradizioni specifiche, atavico per la sua funzione e, allo stesso tempo, “tecnologico”. Dall’insieme della storia se ne comprenderanno anche i “codici d’onore” da cui dedurremo la speciale posizione sociale del vecchio pescatore.

Dinamica del linguaggio

Tornando allo stile narrativo, citiamo un semplice passaggio che precede il precedente paragrafo e descrive un momento di pausa, dopo l’approdo in porto.

Sedettero sulla terrazza e parecchi pescatori canzonarono il vecchio e lui non si offese. Altri, pescatori più vecchi, lo guardarono e si sentirono tristi.

Testo originale:

They sat on the Terrace and many of the fishermen made fun of the old man and he was not angry. Others, of the older fishermen, looked at him and were sad.

In spagnolo:

Se sentaron en la Terraza. Muchos de los pescadores se reían del viejo, pero el no se molestaba. Otros, entre los más viejos, lo miraban y se ponían tristes.

Nel confronto tra originale e traduzioni incuriosisce l’interpretazione di “and were sad”. In inglese la scelta di “were” invece di un “and felt sad” o della, più lunga “and (the view of the old man) made them sad” o simili, punta direttamente sullo stato d’animo degli altri anziani e non sul passaggio da stato “indifferente” a “triste”, sottolineando il valore di memento mori o reminder. In italiano,  “si sentirono tristi” ricorda più da vicino “felt sad” e propende verso l’idea di un passaggio da un atteggiamento all’altro. In spagnolo “ponerse triste” indica senz’altro uno stato d’animo conseguente all’azione precedente (lo guardarono). È anche vero che mentre in italiano abbiamo un passato remoto -lo guardarono- che scandisce un momento preciso, in spagnolo l’azione si diluisce in “lo miraban”, un imperfetto che allunga l’azione e suggerisce una serie di occhiate furtive che intristivano progressivamente la platea.

Con riferimento all’intero romanzo, quali sono i tratti caratterizzanti dello stile?

  1. frasi brevi e semplici
  2. lessico semplice
  3. pochi aggettivi
  4. rispetto dell’ordine naturale della frase
  5. pochi incisi
  6. abbondanza di verbi

Analizziamo la prima frase:

Sedettero sulla terrazza e parecchi pescatori canzonarono il vecchio e lui non si offese.

Sedettero, canzonarono, offese; tre verbi che includono azione (sedettero), caratterizzazione in “canzonarono” -sottolinea la viltà dei pescatori che se la prendono con un anziano, oltre alla totale mancanza di empatia e previsione (un domani saranno vecchi anche loro!). “Lui non si offese”, risposta all’azione e caratterizzazione; Santiago non si offende per stanchezza e un’indifferenza che costituisce anche la sua autodifesa.

In questo caso il lessico non ha bisogno di riferimenti tecnici, quindi è semplice e aderente alla realtà, come lo è la sequenza delle azioni. Quasi come in una telecronaca sportiva assistiamo alla botta e risposta tra entità contrapposte. I “codici d’onore” del mondo della pesca implicano abbondanti catture, l’orgoglio della vittoria sul mare e perfetta autosufficienza o, al contrario, la rassegnazione alla propria inutilità. Tutti parametri che il protagonista contraddice da un lato per l’incapacità di portare a casa un bottino sufficiente, dall’altro per la sua ostinazione a non voler cedere e ritirarsi a morire. I pescatori giovani si sentono in diritto di deridere la stramberia del vecchio. La reazione dei più anziani che si intristiscono, riaggiusta la crudeltà sociale e segnala l’esistenza di un debole vincolo, comunque né consolatorio, né attenuante, tra il solitario protagonista della storia e la comunità che lo circonda. (n.z.b.)

Fonti: materiali Scuola di Scrittura, vocabolario Treccani, vocabolario Real Academia de la Lengua Española, Oxford Dictionary.

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